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Apocalisse



Il 14 marzo era un giovedì. Quel pomeriggio mi avviai verso casa prima dell’imbrunire, seguendo i consigli della vettura municipale che, dalla mattina, percorreva le strade della città avvertendo la popolazione dell’arrivo del ciclone Idai. Il percorso del ciclone era stato seguito da giorni.

Si era formato nell’Oceano Indiano vicino al Madagascar, si era diretto a nord-ovest verso le coste settentrionali del Mozambico, poi era tornato indietro, aveva ripreso forza e, con una virata di 180°, era nuovamente ritornato verso il Mozambico, lanciato ad oltre 200 km all'ora verso la città di Beira e le località vicine.

Nel pomeriggio i negozi erano affollati di persone che acquistavano alimenti e acqua minerale affrettandosi subito dopo verso le proprie abitazioni. Era la prima volta che succedeva un fatto simile e sembrava di vivere dentro un film. Prima che facesse buio il cielo, sino ad allora nuvoloso, assunse un colore scuro come non avevo mai visto prima e, quasi nello stesso istante, si levò un forte vento: i primi segnali dell’apocalisse che stava abbattendosi sulla città e le zone circostanti. Erano circa le 21 quando le raffiche si intensificarono e la pioggia, sino a poco prima minuta e sottile, si tramutò in scrosci violenti. Un forte rumore mi fece accorrere alla finestra: il tetto della casa del mio vicino era volato via.

Qualche minuto dopo fu la volta della casa accanto e, come una sinfonia infernale, uno dopo l’altro i tetti delle case intorno stavano volando via. Erano tetti a due spioventi, robuste costruzioni dell’epoca coloniale. Il vento stava aumentando di forza: il ciclone aveva iniziato la sua missione devastatrice. Guardavo le palme piegarsi sotto l’urlo del vento con un’angolazione impossibile per poi ritornare, per qualche istante, alla posizione normale: quasi un esercizio di ginnastica. Poco più tardi, la natura si scatenò con tutta la sua forza. I grandi alberi della strada principale si abbattevano, l’acqua allagava ormai tutto il quartiere, il vento aumentava sempre più di intensità. Si spensero le luci in tutta la città e i telefoni smisero di funzionare.

Ero al buio, senza nessun contatto, senza la possibilità di chiamare qualcuno in caso di necessità. Improvvisamente si frantumarono i vetri delle finestre, i telai delle porte sbattevano e a nulla servivano le serrature. Sentii che una parte del tetto era volato via ma speravo nella robustezza della soletta di cemento. Verso le 23 improvvisamente il vento si calmò e la pioggia diminuì d’intensità. Il peggio forse era passato e aspettai che tornasse la corrente elettrica che, come seppi poi, era stata staccata per sicurezza. Ma la pace fu di breve durata. Verso mezzanotte un enorme boato, come una grande esplosione, mi fece sobbalzare spaventato. Il vento riprese forza, la pioggia cadde ancora più violenta e la natura terminò di devastare quel poco che aveva risparmiato prima. Fu in quelle ore che vennero abbattute le antenne telefoniche, le cabine elettriche, i muri di cinta delle case e gli alberi, centinaia di magnifici alberi che ombreggiavano le strade della città stavano cadendo in mezzo alle vie, sugli edifici, sui veicoli. La mia casa si stava riempiendo d'acqua dalle finestre ormai inesistenti: i mobili, il televisore, le poltrone, i vestiti, tutto rovinato.


Fu in quei momenti terribili che, per la prima volta da quando il ciclone era arrivato, pensai che i muri di cemento non avrebbero resistito alla forza del ciclone. Ebbi paura che la casa crollasse. Non avevo mai vissuto un’esperienza simile. E se la soletta di cemento o i muri avessero ceduto? Potevo rimanere travolto. Uscire di casa neppure a parlarne, fuori stava volando di tutto. Presi un materasso completamente bagnato e mi riparai sotto il tavolo. Sino all’alba vento dopo vento, acqua dopo acqua.


Arrivò finalmente l’alba: un’alba livida. Il vento era sceso d’intensità e così anche la pioggia. Il ciclone si era allontanato dalla città e stava continuando la sua opera devastatrice altrove. Uscii nel cortile. Pezzi di vetro, animali morti, mobili sparpagliati, cavi elettrici dappertutto, tegole e mattoni sul terreno. Mi diressi verso il centro. Tutto era chiuso, poche persone per le strade, i negozi saccheggiati. Senza nessuna comunicazione. Senza poter chiamare un familiare, un amico per avere informazioni. Le notizie che i passanti riferivano erano solo di distruzione e morte. Per le strade alberi caduti, sabbia, fango e detriti. Non avevo fatto acquisti il giorno precedente e la ricerca di cibo e di acqua stava diventando affannosa. Dove mangiare e dove dormire? Mi recai in una delle scuole che il municipio aveva trasformato in centro di accoglienza dove si poteva cucinare ed avere una stuoia per dormire. Non era comodo ma almeno ero all'asciutto.

Sarebbero trascorsi quattro giorni prima di rivedere il sole, quattro giorni di pioggia continua.

È trascorso oltre un mese da questa catastrofe.

Non vi è ricordo nella storia recente del Mozambico di un disastro naturale come quello accaduto il 14 marzo. Beira, la città portuale con oltre 500mila abitanti, è quasi scomparsa per la violenza del ciclone. Per oltre una settimana è rimasta senza corrente elettrica e senza telefoni, isolata per la caduta dei ponti con il resto del Mozambico, le vie cittadine intransitabili per la caduta degli alberi e le macerie dei tetti crollati, l’ospedale senza il tetto con centinaia di feriti che aspettavano di essere curati, senza la possibilità di poter acquistare cibo e acqua pulita.



Sembra che i mutamenti climatici siano stati la causa di questo disastro. Il Mozambico, e la maggior parte dei Paesi africani, non sono preparati a questi fenomeni. Il passaggio di questo ciclone deve far riflettere per il futuro, perché vi saranno altri fenomeni come questo e non devono trovarci impreparati.


Carlitos Machate (Beira, 24 aprile 2019)


Si conclude così la lettera del nostro animatore Carlitos.


Ricordiamo che notizie su questo avvenimento si trovano nei post precedenti.







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